Quindi, alla fine, che cos’è questo networking?

Un giorno, nel periodo in cui stavo terminando il libro, mia figlia comincia a gironzolarmi intorno, si avvicina alla spessa pila di bozze e con la sua aria curiosa mi fa, “Papi, ma quindi alla fine che cos’è questo networking?”.

networking handshake

“Vediamo, Marti”, ho esordito, cercando di mascherare la gioia di poterglielo spiegare, “dimmi brevissimamente come sei passata dall’idea di voler regalare a Giulia il biglietto per Shawn Mendes al telefono che poi le avete comprato e che costava di più”. Ci ha pensato un attimo.
“Semplice. Avrei dovuto comprarle due biglietti, uno per me e uno per lei, che mi sarebbero costati 160 euro. Così ho organizzato un gruppo su Growish e con 20 euro a testa le abbiamo preso il telefonino che voleva”.
A parte Growish, che non avevo mai sentito prima, era la risposta che cercavo.
E conoscendo l’amore che i giovani hanno per la brevità le ho detto, “Sei arrivata a qualcosa di più di quello che avresti ottenuto da sola, attraverso la connessione ad altre persone. Si chiama networking. Pensa a quante cose hai fatto, fai e potrai fare allo stesso modo”.
Tutta la mia soddisfazione per quel favoloso momento pedagogico è svanita quando, a libro finito, ho sentito Martina che, mostrandolo a una sua amica, diceva “Ti spiega come ottenere le cose usando le persone”. Il gelo.
Questa cocente delusione mi ha aiutato a comprendere che non era colpa di mia figlia, ma un difetto culturale mio, e che bisogna dedicare alle spiegazioni, qualsiasi esse siano, il tempo necessario.
Si può capire tanto dall’osservazione del solco che separa lo stesso concetto espresso in due sistemi culturali diversi.
Nel nostro Paese la definizione del termine stesso “networking” ondeggia confusamente tra il mondo tecnologico e quello sociale. La Treccani e l’Accademia della Crusca, ad esempio, fanno esclusivo riferimento alle reti tecnologiche e ai social network e non al termine “networking”, che è come spiegare Fellini mostrando una macchina da presa.

networking

Dall’approssimazione terminologica si passa all’allusione da strada, per cui ci sarà sicuramente capitato di sentire da qualcuno a noi vicino di aver “fatto networking”, sottotitolando il senso dell’affermazione con sguardo sornione e mano furtiva.
Insomma, i nostri vizi li conosciamo.
Anche gli anglosassoni non ne difettano, ma hanno ben chiaro cosa sia, a cosa serva e come si pratichi il networking.
Tra le svariate definizioni inglesi del termine, quella che mi ha conquistato, e che fa a pugni con l’idea di Martina, è di Darcy Rezac, che ne parla come “quello che tu puoi fare per gli altri”.
Io poi mi sono creato la mia personale definizione che è “l’attività svolta con costanza, sincerità, spontaneità, curiosità e responsabilità volta a costruire relazioni interpersonali che creino opportunità e benefici reciproci nel tempo”.
Ecco, qui il solco tra la nostra forma mentis e quella anglosassone assume dimensioni importanti (ma vuoi mettere forma mentis vs mindset?).
Mi spiacerebbe essere tacciato di esterofilia, mi sento un orgogliosissimo italiano, e proprio per questo voglio aiutare a sgomberare il campo da una serie di pregiudizi che ci tengono lontani da quello che è un vero e proprio tesoro.
L’aspetto più eccitante della filosofia del networker è che:

  1. la cura della sua rete può portare a risultati inimmaginabili anche per i partecipanti alla rete, non di rado ad agganciare obiettivi che in partenza sarebbero apparsi completamente fuori portata.
  2. ogni persona è un hub, di rapporti e di opportunità;
  3. networking non vuol dire “sfruttare” la rete e i suoi componenti, ma valorizzarli mettendosi al servizio dell’una e degli altri.

Se usi le persone come autobus, per andare da un punto ad un altro, senza che ci sia alcuna reciprocità, il sistema si desertificherà progressivamente e di autobus ne passeranno sempre meno.
Ora vado a capire meglio il funzionamento di Growish.
Una delle cose che il networking mi ha insegnato è che non bisogna mai smettere di imparare.

NeverStop